“Wet ink [ inchiostro umido]: Una lezione su Fluidità, assorbenza e osservazione”, di Elena Patarini
La tecnica che ho usato per creare il mio lavoro qui a Casaleggio proviene più dalla scrittura che dalla pittura o dal disegno. L’ho presa in prestito dall’antica tecnica calligrafica asiatica, anche se i pennelli sono moderni, di nylon con un serbatoio tipo penna stilografica. Gli inchiostri, infatti, sono per penne stilografiche e non consentono che una gamma limitata di colori, anche se con più variazioni del classico inchiostro cinese nero. La carta e’ carta di riso (anche se qualunque asiatico vi dirà che non e’ fatta col ‘riso’), e’ prodotta da fibre naturali e, soprattutto, ha un colore naturale, non sbiancato come la carta normale, cosa che e’ meglio per l’ambiente. Questa carta ha il vantaggio di essere leggerissima e più assorbente e il colore viene assorbito profondamente dalle fibre e non rimane solo in superficie. Nonostante l’essenza di questa antica tecnica sia semplice, credo che sia la più difficile da perfezionare: non ammette errori, ne’ cancellature. E’ la tecnica di disegno e pittura più diretta che conosca. Ho accettato le difficoltà di questa tecnica contemporaneamente come pratica di concentrazione e di osservazione. Naturalmente ci sono anche altre ragioni: pratica, estetica, emotiva, eccetera… che sarebbero parte di un discorso ulteriore. L’uso di questa tecnica può anche essere visto come una reazione contro l’invasione della fotografia ‘easy’, troppo spesso e comunemente praticata coi cellulari e altre apparecchiature simili, che penso sia diventata la tomba dell’apprendere tramite l’osservazione e la contemplazione. La tecnica scelta ha essenzialmente il risultato pratico di essere il materiale più leggero con cui viaggiare, non solo per arrivare in aereo da New York, ma anche per muovermi a piedi o in bicicletta con uno zaino.
Esteticamente e’ un modo per viaggiare nel mondo della trasparenza e della fluidità, cosa che non facciamo abbastanza. Emotivamente e’ un mezzo per aiutarci ad esprimere la morbidezza e la durezza estreme che proviamo nel contatto con la natura, e anche la nostra stessa ‘natura’. Alla fine la tecnica non significa molto, in genere tutte le tecniche sono ‘scuse’, solo ‘attrezzi’ per cercare di raggiungere una comprensione più filosofica del mondo in generale, una possibilità d condivisione con altri, una traccia della nostra testimonianza fragile mentre siamo sulla terra, vale a dire il deposito di tutte le influenze positive e negative che abbiamo ricevuto e generato durante il nostro cammino troppo corto. Vorrei ringraziare tutti gli amici che mi hanno sostenuto e reso possibile la mia scoperta e la mia comprensione della loro terra, ricca di cultura e ben conservata dal punto di vista naturalistico, attraverso la mia applicazione di ‘tecnica’ qui a Casaleggio. E per avermi invitato a presentare in pubblico e a condividere l’unicità della mia esperienza estiva: il mio modesto feedback per la loro commovente apertura e generosità.
Raymond Verdaguer, traduzione di Elena Patarini. Italia, 31 agosto 2014